Grazie, grazie un milione! Per me conta tantissimo il fatto che tu, a differenza di tutti gli altri
, l'abbia trovato diverso da Eragon!
Riguardo al protagonista del mio libro, vuoi conoscere un segreto su di lui? Se sì, allora continua a leggere:
il protagonista del mio libro sono io stesso, esattamente come sono nella realtà!
(eccetto che per una cosa: nella realtà porto gli occhiali
, anche sono molto più bello senza
) E non è l'unico, tutti personaggi de La Catena di Sogni sono assolutamente reali.
Ok, ora mi sa che posterò il 2° capitolo, il cui titolo, guardacaso, corrisponde a quello del libro!
La catena di sogni
Tra i miei compagni di classe ero quello che abitava più lontano dalla scuola, quindi dovevo prendere la RER B alla stazione di Sevran-Livry in direzione Robinson o Saint Remy les Chevreuses, scendere a Saint Michel Nôtre Dame, prendere la linea C in direzione Versailles e scendere a Pont de l’Alma. Cinque minuti a piedi ed ero arrivato a scuola. Nel complesso ci mettevo circa un’ora.
Il viaggio in treno non era poi così noioso, poiché avevo sempre con me l’iPod e, all’occorrenza, avevo tutto il tempo di ripassare per le verifiche e le interrogazioni.
Il genere che mi piaceva di più ascoltare era il metal, ma di tanto in tanto ascoltavo anche qualche musica melodica e tranquilla. Con melodica e tranquilla non intendo la classica, quella non fa proprio per me: troppo lunga, ripetitiva e noiosa, però avevo imparato a rispettarla, grazie a mio papà, il quale, le poche volte che era a casa, non ascoltava nient’altro.
Appena fui salito sul treno, cercai subito un posto a sedere, poiché stare in piedi, dopo che si è aspettato per dieci minuti con un macigno sulla schiena, non è proprio il massimo, soprattutto quando c’è tanta gente e si è ancora mezzi addormentati.
Una volta che mi fui seduto, mi misi la cartella sulle ginocchia e tirai fuori l’iPod dalla tasca destra dei jeans. Tenni premuto per tre secondi il tasto e, dopo essermi accertato che si fosse acceso, lo abbassai e mi guardai intorno, in cerca di sguardi desiderosi del mio oggetto. Da quando mi ero trasferito a Parigi ed avevo cominciato ad andare da solo sulla RER ogni giorno, avevo visto tanti furti e tante risse tra ragazzi, cosicché, malgrado che a me non fosse mai capitato niente di simile, avevo sviluppato un vero e proprio terrore degli sguardi altrui e di qualsiasi opinione che potesse derivare da tale sguardo, anche se si trattava di una persona qualunque che molto probabilmente non avrei mai più rivisto in vita mia.
Era un’indagine, e dunque mi guardavo intorno attentamente, ma senza prestare attenzione alle persone intorno a me, solo ai loro sguardi.
Quando fui certo che nessuno mi stesse guardando, alzai l’iPod, toccai l’icona dei video e cominciai a scorrere la lunga pagina in cerca del video con la canzone “Operation Ground and Pound” di Dragon Force. Una delle mie preferite e della quale avevo imparato a memoria il testo, in modo da poterla cantare a squarciagola quando ero a casa, e nella mente quando mi trovavo da qualche altra parte.
Infilai l’iPod di nuovo in tasca, mi rilassai e mi concessi di guardare chi stava seduto nei tre posti a sinistra e davanti a me: tre donne, tutte non molto giovani, le due davanti a me stavano leggendo e quella alla mia sinistra guardava fuori dal finestrino.
Non ebbi bisogno di guardarle ulteriormente, il semplice fatto che attorno a me ci fossero solo donne mi rasserenò. Io avevo sempre nutrito un profondo rispetto per le donne, pensavo addirittura che le donne fossero meglio degli uomini. Il perché? Non ero certo di saperlo nemmeno io, forse perché tutti i grandi errori della storia gli hanno fatti gli uomini e le poche volte che una donna è arrivata al potere, essa ha lasciato quasi sempre un’impronta molto positiva.
Quando il treno si fermò a Gare du Nord, la donna seduta alla mia sinistra si alzò e uscì dal treno. Io mi spostai in quello che era stato il suo posto e la guardai mentre venne inghiottita dalla scala che portava al piano di sopra, nel cuore della stazione; dove, molto probabilmente, avrebbe preso la metro per andare chissà dove.
Quando il treno ripartì, io appoggiai il gomito sinistro sul bordo del finestrino, appoggiai la testa sulla mano aperta e lasciai lo sguardo vagare nell’oscurità del tunnel, mentre i miei piedi battevano silenziosamente il velocissimo ritmo della canzone che ascoltavo.
Avevo scoperto i Dragon Force verso la fine dell’estate e da allora avevo cominciato ad ascoltare le loro canzoni sempre più spesso. Tuttavia non dimenticherò mai My Chemical Romance, il mio ex gruppo preferito, le cui canzoni mi hanno accompagnato per tutto l’anno scorso.
La mia mente fu immediatamente percorsa da una gran voglia di ascoltare “Famous Last Words”, la mia indiscussa preferita tra tutte le canzoni che conoscevo dei My Chemical Romance.
Appena ebbi cambiato, le parole della canzone cominciarono a comporsi nella mia mente e, insieme con esse, i ricordi del mio primo anno a Parigi: indubbiamente l’anno più travagliato della mia vita. Avrebbe anche potuto essere l’anno più felice della mia vita, ma qualcosa l’aveva reso un anno pieno di lacrime.
Non posso dire che i miei compagni avessero torto quando dicevano che era colpa mia se i soliti tre scemi che sono presenti in ogni classe esistente mi avevano preso in giro per tutto l’anno, perchè l’errore era stato mio: con coloro che si dimostravano gentili verso di me, anche una sola volta, mi veniva sempre spontaneo cercare di stringere amicizia e raccontare dile mie passioni. Il problema è che sono pochissime le persone in grado di comprendere ed apprezzare i ragazzi come me: i pochi che, raggiunta l’età della fine dei sogni (che secondo me è intorno agli undici anni), sono ancora in grado di aprire quella porta invisibile ed entrare in quel mondo fatto d’epiche battaglie, draghi ruggenti, cavalieri valorosi, angeli scintillanti e ogni altra cosa per la quale non c’è più spazio in questo mondo.
Bastò una confessione di troppo a una persona “normale” ed ecco che fui ufficialmente etichettato come: pazzo, sfigato, frocio (perché portavo i capelli lunghi), rimbambito con la testa tra le nuvole, buffone...
Ma la cosa peggiore è che tutti mi detestano e cercano sempre di allontanarsi da me, come se io avessi una strana malattia contagiosa e mortale. Persino le persone alle quali non avevo mai fatto né detto niente, si scostano leggermente quando passo o mi siedo vicino a loro, con un verso soffocato di disgusto, solo perché nella scuola gira la voce che io non sono “a posto”. Se poi, come nel mio caso, nel proprio carattere è inciso un profondo bisogno d’amici, allora la cosa diventa davvero tragica.
Mia mamma, però, si era preoccupata, mi aveva ascoltato ed era andata più volte a parlare dalla preside. Quest’ultima le diceva sempre che avrebbe preso provvedimenti, peccato che poi non facesse e non dicesse mai niente.
L’unica cosa che mi aveva veramente salvato dalla depressione, era stata la scoperta che in ogni classe esistente, oltre ai soliti tre scemi, c’è sempre qualcuno che ti può capire.
Andrea e Aristeo sono, tra tutte le persone che ho conosciuto in Francia, i miei migliori amici.
E chi altri, se non loro che sono i due secchioni della classe, poteva diventare mio amico?
La loro fantasia, come la mia, era sopravvissuta al passaggio degli undici anni.
Andrea aveva gli occhi e i capelli castani, ma questi ultimi, al contrario di me, li teneva corti. Una sua particolarità era il suo sguardo vispo che mi ricordava molto quello di un bambino.
Lui, purtroppo, aveva subito (e subisce ancora, anche se di meno) il mio stesso trattamento quando era arrivato in questa scuola. Lui stesso mi ha raccontato di come una volta i tre che c’erano fino all’anno scorso (due di loro sono stati bocciati all'esame e l'ultimo non mi dà quasi più fastidio) gli toglievano e nascondevano spesso le scarpe e i prof mettevano la nota a lui perché “si era fatto togliere le scarpe dai suoi compagni”.
Aristeo era un ragazzo magrissimo, con gli occhi castano chiari, i capelli dello stesso colore lunghissimi raccolti in una coda che gli arrivava a metà schiena, la fronte ampia e portava gli occhiali. Lui era sempre stato un tipo freddo e riservato, l’unica persona colla quale parlava volentieri era Andrea. Dove abitasse era un mistero, non l’aveva mai detto a nessuno, e nessuno sapeva come riuscisse a sopravvivere a tutti i corsi che faceva oltre alla scuola, ne seguiva talmente tanti che sembrava non avesse mai nemmeno un’ora libera. Per esempio: se qualcuno gli chiedeva quand’era libero per fare un giro a Champs de Mars, lui gli rispondeva elencando gli innumerevoli corsi che frequentava oltre alla scuola italiana, e, oltre a questi, si aggiungevano una scuola pomeridiana francese e il conservatorio di oboe.
Da quando sono qui, ho potuto appendere i miei sogni alla fiducia che loro mi hanno dato, cosicché il mio mondo ha sempre resistito agli eventi quotidiani che lo torturano.
Immerso com’ero nei miei ricordi, mi spaventai enormemente quando sentii la sirena del treno che annunciava la chiusura delle porte.
Dopo essermi un po’ calmato, guardai fuori dal finestrino e vidi il cartello blu con su scritto “S. MICHEL NOTRE DAME”.
Mi mancò il respiro.
Scattai in piedi e corsi fuori dal treno, strascicando per terra la cartella.
Le porte si chiusero giusto un secondo dopo che io fui uscito.
Rimasi per un momento lì col fiatone a guardare il treno partire, contento di aver evitato il ritardo, dopodiché mi misi la cartella in spalle e m’incamminai verso il binario della RER C.
Salii tutte le scale (anche le mobili) facendo due gradini per passo. Era diventata un’abitudine ormai da un paio d’anni, anche se ogni volta mi sembrava che lo facessi da una vita.
Il resto del viaggio fu quasi automatico; io ascoltavo la musica e le mie gambe si muovevano da sole, fino a quando non arrivai in classe.
Era una grande classe rettangolare, con le pareti bianche, il soffitto bucato in alcuni punti, i banchi tutti uguali disposti a coppie secondo le amicizie e le due porte piene di buchi causati dai tarli.
I miei compagni erano tutti là, a spettegolare sul weekend.
Io cercai Andrea ed Aristeo per la classe, ma non li trovai.
«Oh! I tuoi “amici” non sono venuti, non credi che ormai siano stufi di te che li segui ovunque?» Disse una voce alla mie spalle che conoscevo bene e non mi stava per niente simpatica: quella di Dario.
Mi voltai e gli risposi come meritava: «Ah ah, molto divertente. Almeno io ho dei veri amici, come tu non li avrai mai.»
Dario era un ragazzo non molto alto, né magro né robusto, con i capelli neri tagliati corti, la faccia piena di brufoli (più di me) e portava degli occhiali con le lenti rettangolari. Indossava una maglia nera e teneva entrambe le mani nelle tasche dei jeans marroni.
«Ah già! I “veri amici” sono solo quelli che volano a dorso di drago insieme a te ne “La Storia Infinita”!» Esclamò divertito.
«Ma cosa ne vuoi sapere tu, non hai nemmeno letto “La Storia Infinita”.» Dissi esasperato, dopodiché lo scostai gentilmente ed andai a sedermi al mio banco.
Prime due ore: matematica, entrambe trascorse stravaccato sulla sedia, perso nell’abisso della noia più totale, senza riuscire ad ascoltare le veloci parole della prof.
Terza ora: storia. Molto meno noiosa, me non abbastanza interessante da coinvolgermi nell’argomento attuale per tutta l’ora. Per un po’ stavo attento ed intervenivo, ma ad un certo punto abbassavo lo sguardo senza nemmeno rendermene conto ed ecco che ricominciavo a vagare con lo sguardo fisso nel vuoto.
Per quest’ora, decisi che avrei sfogliato il libro, alla ricerca di una pagina sulle crociate ed i cavalieri, tutti argomenti distanti anni luce da ciò che stavamo studiando in quel periodo.
Potevo permettermi di non ascoltare perché tanto recuperavo a casa, studiando sul libro. Avevo ereditato la memoria a lungo termine da mio papà, dunque mi bastava una lettura, a volte due, per ricordarmi quell’argomento alla perfezione.
Storia mi era sempre interessata da quando ero piccolo, ma da qualche anno questo mio interesse era diminuito, non per pigrizia, ma per puro disinteressamento. Da quando tutti, persino i miei genitori, mi dicevano che ormai ero grande e che dovevo comportarmi di conseguenza, mi veniva spesso detto, in sintesi, che “dovevo scendere dalle nuvole”, ma in una maniera così formale ed indiretta da farlo quasi sembrare un consiglio per il mio bene. Fortunatamente, io avevo sempre riconosciuto quelle parole così smielate per quello che erano: un metodo di seduzione così subdolo che nemmeno si nota, architettato per essere utilizzato nel passaggio critico che c’è tra fanciullezza e pubertà, con lo scopo di far tacere per sempre le fantasia di un bambino.
Da allora, ho cominciato a osservare ed evitare tutte quelle cose che fanno gli adulti normalmente, per il terrore di diventare come loro. Così ero riuscito a scoprire la legge che regola ogni singolo adulto “normale” esistente: domani è per coloro che lo preparano oggi. Quando ne parlai a mia mamma, lei mi diede ragione e mi spiegò anche i molti perché di questo loro modo di ragionare, tutte cose che sembrarono perfettamente logiche alla mia mente, facendomi persino dubitare della mia teoria su questa legge e che io avessi torto marcio, ma, dopo averci ragionato su un po’ senza essere condizionato da altre persone, capii l’orrore nascosto in questa legge: come può una persona vivere la vita che ha preparato per un giorno, se quel giorno deve lavorare per rendere più bello un giorno del quale non potrà mai compiacersi? In questo modo, gli anni passeranno come se fossero secondi, fino a quando la morte non porrà la parola fine a questi preparativi infiniti, e quella persona si accorgerà che la sua vita è passata in un batter d’occhio, senza nemmeno esser stata vissuta decentemente.
Mi venivano le lacrime agli occhi ogni volta che pensavo a quante persone avevano subito questa sorte, senza nemmeno essersene rese conto, se non quando ormai era troppo tardi.
Così, avevo giurato a me stesso che non avrei mai e poi mai vissuto per il futuro, né per il passato, vivendo esclusivamente nel presente.
Le mie profonde riflessioni furono interrotte da un rumore alla mia destra, quello della porta che si apre. Voltai lo sguardo verso quel rumore e vidi Andrea ed Aristeo sulla soglia, vestiti con giacche pesanti, le cartelle sulla schiena, le facce rosse (soprattutto i nasi) ed entrambi tenevano un foglietto rettangolare giallo nella mano destra.
In quel momento, la campanella di fine ora suonò: intervallo.
Tutta la classe si alzò simultaneamente, gli amici cercarono gli amici e la chiacchierata di sottofondo riprese. Il prof firmò i due foglietti gialli che avevano portato i miei amici, dopodiché prese le sue cose ed uscì.
Io cercai di tenere a freno la voglia tremenda che avevo di saltare subito addosso ai miei amici e di raccontargli del sogno, ma non ci riuscii e corsi subito da loro.
«Yo voi! Che vi è successo? Sapete che senza di voi non ci si diverte qua, allora perché ci avete messo tanto?»
Loro due risero e Aristeo disse: «Ogni tanto sentiamo il bisogno di ricordarvi quanto sono vuote le ore di mate senza di noi.»
Tutti e tre scoppiammo a ridere.
Dopodiché, fu Andrea a parlare, cercando di trattenere le risate: «È successo un pasticcio sulla metro.»
«A tutti e due?!» Chiesi io.
«Già.» Proseguì Andrea. «Ma adesso ho cose più importanti di cui parlarvi...» Si guardò intorno per vedere se ci fossero dei potenziali ascoltatori indesiderati, e in effetti la zona attorno alla cattedra, in quel momento, era piuttosto affollata, c’era anche Dario, e ci stava fissando.
Andrea mise le mani sulla mia spalla e quella di Aristeo e ci sussurrò: «Meglio andare in fondo alla classe, qui c’è troppa gente per i miei gusti.»
Io gettai uno sguardo alla cattedra e dissi: «Concordo, anch’io ho qualcosa di molto interessante da dirvi.»
«Pure io.» Aggiunse Aristeo.
Tutti e tre ci dirigemmo verso il fondo della classe, zona che normalmente era molto affollata, ma che questa volta era deserta.
Andrea gettò ancora uno sguardo verso l’altra parte della classe, per sicurezza, dopodiché sorrise e disse, entusiasta: «’Sta notte ho...»
In quel momento, successe una cosa stranissima, una cosa che nessuno di noi tre si sarebbe mai aspettato, una cosa che nessuno di noi tre sarebbe mai riuscito a spiegare.
Mi sembrò come se un ago gelido si fosse introdotto senza tanti complimenti nella mia testa e avesse rotto qualcosa, qualcosa di minuscolo e, allo stesso tempo, di veramente importante.
La mia schiena si raddrizzò bruscamente, la mia testa scattò violentemente indietro, la mia bocca si aprì e i miei occhi si spalancarono.
Ebbi giusto il tempo di vedere che Andrea e Aristeo avevano avuto la mia stessa reazione, un momento dopo la vista mi si oscurò completamente e caddi in ginocchio.
Appoggiai la mano sinistra per terra e mi presi la faccia con la destra.
Dopo un orribile momento, riacquistai la vista. Cercai di alzare lo sguardo, ma la mia testa non si alzò. Cercai di parlare, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono.
In compenso, qualcosa mi costrinse a guardare dall’altra parte della classe.
Vidi Dario, il quale rideva in una maniera oscena, prendere la mia cartella, dirigersi goffamente verso il cestino e... tirarci dentro la cartella con un grido di trionfo.
Bando alle riflessioni.
Mi feci strada a spintoni tra i malcapitati compagni che si trovavano sul mio percorso e rovesciai i banchi che mi intralciavano il passaggio. Non prestai ascolto alle imprecazioni che mi venivano lanciate da dietro, tutto ciò che mi interessava in quel momento era spaccare la faccia a Dario.
Quando lui mi vide, scappò codardamente fuori della classe, ridendo ancora più forte, soddisfatto di aver ottenuto da me la reazione desiderata.
Frenai strisciando con il piede sinistro in modo da non perdere tempo e velocità in quella curva a gomito ed inseguii Dario sul pianerottolo. Fuori della classe c’era più gente, ma più o meno tutti si scostarono al nostro passaggio, gridando varie parolacce e bestemmie a caso.
Noi due girammo un po’ lì, poi attorno alla colonna. Dopodichè ritornammo in classe.
Dario non virò verso il fondo della classe, ma continuò diritto, intrappolandosi tra la cattedra e la prima fila di banchi.
Che occasione d’oro per una deliziosa vendetta.
Grazie alle mie gambe lunghe, non mi fu per niente difficile raggiungerlo, afferrarlo per il colletto e per il braccio e spingerlo più forte che potei.
Eppure avrei dovuto prevedere che la mia coscienza avrebbe interferito proprio nel momento precedente allo schianto, facendomi dimezzare la velocità, invece rimasi ancora una volta sbalordito da quel calo improvviso di tensione e quella sensazione di fresco alla testa.
Anche se molto più dolcemente di come l’avrei voluto, lo schianto avvenne e Dario si accasciò per terra.
Avrei potuto picchiarlo a volontà, ma la mia coscienza me lo impedì.
Dunque andai verso il cestino e mi ripresi la cartella. I miei compagni si erano riuniti attorno al cestino e se la ridevano e mi gridavano, insieme con una buona dose d’insulti, frasi come: «Oh, calmati un po’!»
«Ma tu non sei mica a posto!»
«Ma ’sto qua è pazzo!»
«Dario ti potrebbe denunciare per questo!»
Molte di quelle frasi mi entrarono da un orecchio e mi uscirono dall’altro, ma quest’ultima mi divertì alquanto.
Dovrei denunciarlo io per tutte le volte che la mia cartella è finita nel cestino. Pensai.
Avevo appena rimesso la mia cartella al suo posto, tra il mio banco e quello di Aristeo, che qualcosa mi colpì sul sedere facendomi un male terribile. Dopo aver ricevuto un pugno sulla schiena, mi voltai e vidi Dario con la faccia paonazza dalla rabbia.
Siccome avevo girato la testa, il pugno seguente, che avrebbe dovuto colpirmi sulla nuca, mi colpì sull’orecchio destro. Chiusi gli occhi e digrignai i denti. Appena mi fui ripreso, Dario mi spinse e caddi sul banco dietro al mio, rovesciandolo. Le penne, i quaderni e gli astucci che vi erano sopra tintinnarono allegramente sul pavimento.
«Ti sta bene.» Disse una voce soddisfatta alle mie spalle.
Le ultime tre ore di scuola non ebbero molta importanza per me, poiché le trascorsi completamente immerso nelle mie riflessioni su quel litigio, in attesa della campanella che avrebbe segnato la mia liberazione. Allora avrei potuto confidarmi con Andrea e togliermi quel peso di dosso.
«Perché Dario è stato così aggressivo nei tuoi confronti?» Mi chiese lui, mentre scendevamo la lunga scala, diretti all’uscita.
La scuola era deserta, rimanevamo soltanto noi due.
Io sospirai e cominciai a raccontare, attorcigliando le dita come sempre: «Allora, la storia è andata così: nell’intervallo lui mi ha buttato di nuovo la cartella nel cestino, allora io mi sono incavolato e gli sono corso dietro. L’ho inseguito per tutta la classe, abbiamo fatto un bel giro nel pianerottolo e sulla soglia della classe sono riuscito ad afferrarlo per il colletto e l’ho spinto fino a farlo sbattere contro il muro...»
«Beh, questo non lo dovevi fare...» M’interruppe lui.
«Fammi finire! Dunque, dopo averlo sbattuto contro il muro, sono andato a tirare fuori la cartella dal cestino, ma lui si è rialzato ed ha cominciato a menarmi: un calcio nel sedere, un pugno sulla schiena e un pugno sull’orecchio destro (per un po’ non sentivo niente da quella parte), dopodiché mi ha spinto, cosicché sono caduto sul banco di Lavinia, il quale si è rovesciato e, come se non bastasse, lei ha dato la colpa a me!»
Andrea distolse lo sguardo, pensieroso. «Beh... tu non avresti dovuto sbatterlo contro il muro, in questo modo non sarebbe successo niente.»
Io lo guardai allibito. Tra le poche cose che detestavo, una di queste era quando cercavo conforto nei miei amici dopo una vicenda spiacevole e loro non mi davano ragione.
«Ma ti ascolti quando parli?!» Sbottai io. «Secondo te avrei dovuto fare finta di niente quando mi ha buttato la cartella nel cestino?!»
Andrea inclinò leggermente la testa verso destra. «Beh, lo sai che lui è così, potevi ignorarlo come fai sempre.»
«Sì, certo, normalmente riesco a ignorarlo, ma dopo un po’ di volte di seguito che devo ripescare la mia cartella dal cestino e i prof non dicono niente, credo sia comprensibile una piccola ribellione da parte mia, no?» Dissi cercando di tenere un tono di voce civile.
Andrea alzò le spalle e disse: «Io ti ho detto come la penso, ma sono d’accordo sul fatto che non era colpa tua se il banco di Lavinia è stato rovesciato.»
«Ecco, qui viene il bello: durante l’ultima ora ho chiesto scusa a Lavinia per averle rovesciato il banco!»
Sulla faccia di Andrea si dipinse l’espressione di quando pensava di non aver capito qualcosa, con la fronte aggrottata e le labbra contratte. «Perché l’hai fatto? Non era colpa tua.»
«Lo so! È che il fatto che lei fosse arrabbiata con me mi faceva stare malissimo, sia fisicamente sia mentalmente, e questa sensazione è durata fino a quando non le ho chiesto scusa!»
Andrea alzò le sopracciglia. «A volte non ti capisco proprio, al tuo posto io li avrei lasciati entrambi con le loro sciocche idee.»
Nel frattempo eravamo giunti alla porta, dunque salutai il mio amico e gli diedi una pacca amichevole sulla cartella. «A mai più rivederci.» Dissi ironicamente.
Lui sorrise e disse: «Sì, certo. Ci si vede domani.»
Dopodiché ci separammo: io andai verso sinistra e lui verso destra.
Il freddo di quella mattina era perdurato per tutto il giorno e il mio corpo mi fece notare la differenza di temperatura tra l’interno della scuola e fuori con un brivido che mi percorse lungo tutta la mia altezza di un metro e ottanta.
Dopo aver fatto qualche passo a testa bassa, a causa del peso schiacciante della cartella, alzai lo sguardo al cielo per ammirare la pallida luce del sole che in quei giorni tendeva a mostrarsi sempre più raramente.
Quel giorno apparve, rischiarando i colori spenti dei palazzi che si elevavano alti sul lato destro di Rue Sédillot, facendoli sembrare tiepidi e vivaci. Nessun raggio, invece, fu regalato ai loro gemelli sul lato sinistro della strada e a me.
Indignato, affrettai il passo. Prestai poca attenzione ai camerieri che sparecchiavano i tavoli fuori dal ristorante e alle auto del concessionario dell’Alfa Romeo dietro la vetrina all’imboccatura della via, tutto quello che m’importava, era superare quella vetrina per ricevere un po’ di luce e calore in preparazione al lungo viaggio che mi attendeva, anche perché avevo messo la giacca nella cartella e non avevo nessuna voglia di mettermela.
Il pensiero del tepore che stavo per ricevere oscurò per un momento tutti gli avvenimenti spiacevoli che erano accaduti a scuola, tanto che riuscii persino a sorridere.
Rimasi alquanto sorpreso, quando la luce mi accarezzò, senza darmi nient’altro che la luce stessa. Era una luce fredda, quanto la brezza leggera che aveva appena cominciato a soffiare.
Con la delusione, riemersero anche le immagini di Dario che mi prendeva in giro appena dopo che io ero entrato in classe, che mi buttava la cartella nel cestino, che mi picchiava e di Andrea che non mi consolava come avrei voluto facesse.
E va beh... tanto poi tutto si aggiusterà. Mi dissi e continuai per la mia strada, verso la stazione, verso casa.
Un po’ più tardi, quando fui salito sulla linea C, ritornai col pensiero a quella frase e riflettei sulle ragioni che mi avevano portato a formularla. Questa era un’altra mia abitudine. Spesso c’erano delle frasi, semplici frasi prese da un qualsiasi testo o discorso, che mi rimanevano in testa per tutta la giornata e sulle quali mi veniva spontaneo meditare e divagare, tenendo, nel frattempo, gli occhi spalancati e fissi nel vuoto, cosa che spesso poteva creare pareri strani sul mio conto nelle persone come i miei compagni di classe.
Ecco che riprendevo a parlare da solo, a bassa voce, sempre a causa degli sguardi: «Dunque, ricapitolando: fuori fa un freddo boia, Dario è riuscito a farmi perdere le staffe anche oggi, la mia cartella è finita nel cestino, Andrea non mi ha dato ascolto e... finito. Direi che tutto questo è abbastanza per etichettare il cinque ottobre duemilanove come “giornata pessima”. Ah... e poi ancora c’è quella strana cosa che mi è successa quando sono andato a parlare con Andrea prima che Dario mi buttasse la cartella nel cestino, chissà cosa stava per dirmi... anch’io sentivo di avere qualcosa d’importante da dirgli, ma non riesco a ricordare cosa... qualsiasi cosa fosse, mi sa che è per quello che mi sono ritrovato a pensare quella frase. Interessante, questa faccenda. Vuoi vedere che mi succederà qualcosa di figo ‘sta sera? È tutto il giorno che ho uno strano presentimento riguardo questa sera, e ultimamente il mio sesto senso non sbaglia mai... beh, se è davvero così, non devo far altro che aspettare!»
Solo allora, dopo tante riflessioni personali, mi resi conto che, per qualche motivo, ero felice.
Tirai fuori l’Ipod dalla tasca e ascoltai a tutto volume la canzone “Reasons to Live”, sempre di Dragon Force, una delle mie preferite.
Il resto della giornata lo trascorsi con la terribile ansia per la notte, dunque passò molto in fretta.
Andai a dormire molto presto, con grande sorpresa di mia mamma.
Ero in un luogo fatto totalmente di tenebre, eppure io vedevo nell’oscurità come se fosse giorno. Malgrado non ci fosse nulla in quel posto, sotto i miei piedi c’era un pavimento liscio.
In un punto di fronte a me si aprì un buco nel pavimento nero. Mi avvicinai per guardarci dentro e vidi che somigliava molto alla tana di una talpa, poiché all’interno c’era della terra.
Dal buco veniva uno strano rumore, come se qualcuno fosse lì a scavare. Dopo un po’, il rumore cessò e dal buco uscì un mucchietto di terra che cominciò a salire in aria. Si arrestò quando fu all’altezza della mia faccia, si mosse e cominciò a prendere forma. Pochi secondi dopo, mi ritrovai davanti ad un secondo me, ma interamente color terra. Balzai indietro, strinsi i pugni e mi accorsi di avere le due spade del sogno della notte prima nelle mani. Emettevano una strana luce in quel posto buio.
La mia copia rimase impassibile. Il buco si richiuse, allora la copia creò una spada usando la terra della quale era composta e si lanciò verso di me. Parai incrociando le mie due spade e per poco non caddi di tanto era forte il colpo. Dopo un momento, la spinsi via sciogliendo l’incrocio e lo colpii sul ventre. Un po’ di terra uscì dalla ferita, cadde e fu inglobata dal pavimento.
Avevo capito come stavano le cose: il mio doppio era fortissimo, ma anche molto lento; a ogni ferita perdeva un po’ della terra di cui era fatto, fino a rimanere solo un involucro cavo.
Comunque, anche se era lento, era capacissimo di prevedere le mie mosse.
Riempito di coraggio, lo affrontai al meglio delle mie capacità, felice di poter finalmente usare le mie lame come avrebbe fatto un vero cavaliere. Felice tanto per dire, perché essendo un sogno, non provavo emozioni.
Avevo quasi vinto, ma feci un passo all’indietro troppo corto e la copia mi colpì di striscio il braccio sinistro. Nonostante sanguinassi, non provai dolore. Mi lanciai verso la copia che, priva di difese, si sbriciolò quando la centrai in pieno con una stoccata da parte di entrambe le spade.
La terra che rimase si dissolse.
Tutto ritornò improvvisamente all’immobilità e il silenzio che c’era all’inizio del sogno.
«E adesso?» Chiesi al vuoto.
Mi rispose una voce talmente profonda da dare i brividi. «Umm... te la sei cavata piuttosto bene. Ora puoi andare.»
«Chi c’è? Che cosa vuoi da me?»
Non ebbi risposta. Poi un rumore, come di vetri che si rompono proveniente da tutte le parti, mi gettò nel panico, un momento dopo mi accorsi con orrore che il pavimento si stava rompendo, non potevo scappare da nessuna parte e dunque rimasi immobile e tremante.
Il pavimento cedette e caddi urlando nell’oscurità più fonda, finché, dopo qualche secondo, caddi su qualcosa di morbido.
Mi guardai intorno: ero in camera mia, ma non era stato solo un sogno, poiché ero sopra le coperte. Sentii dei passi che venivano su per la scala e m’infilai in fretta sotto le coperte. Era di nuovo ora di andare a scuola.
Che sogno strano... non me lo sarei mai aspettato. Chissà cosa significa... oh, ma cosa sto dicendo, dimentico che i sogni sono sempre privi di senso, altrimenti non sarebbero poi così liberi nemmeno nei sogni... Pensavo mentre contemplavo l’alba dal finestrino del treno.
Quando il treno si fermò a Gare du Nord, sentii una fitta tremenda alla pancia che mi fece piegare in due, dopo un paio di secondi ne arrivò un’altra e un’altra ancora, fino a quando non sentii pulsare orribilmente tutta la mia pancia.
«E te pareva...» Dissi ansimando, mentre mi premevo entrambe le braccia sulla pancia. «Pure il maldipancia mi doveva venire! Sarà stato il vento di ieri, mamma ha ragione quando dice che dovrei mettermi la giacca...»
Il maldipancia mi veniva spesso. Era una specie d’influenza intestinale ricorrente, e, quando mi veniva, non c’era niente da fare e dovevo andare immediatamente a casa, altrimenti, verso sera avrei cominciato a vomitare finché lo stomaco stesso non fosse venuto fuori.
Scesi dal treno e mi diressi al binario quarantatrè, dove passavano, insieme con quelli diretti all’aeroporto Charles de Gaulle, i treni diretti a Mitry Claye.
Il cellulare da dentro la stazione non prendeva, dunque dovetti aspettare di essere sul treno e d’essere uscito dalla galleria sotterranea tra La Plaine Stade de France e Gare du Nord per telefonare a mia mamma e comunicarle la spiacevole notizia.
«Oh no! Così perderai l’ora di latino...» Disse mia mamma dispiaciuta, quando venne a sapere.
«Beh, non è colpa mia, sai che quando mi viene, mi viene e non c’è niente da fare.»
«Sì, lo so che tu non sei proprio la persona che si finge malata pur di non andare a scuola, almeno quello te l’ho insegnato. Beh, che ti devo dire... vai a casa, avvolgiti bene nella coperta, fai i compiti e telefona ad Andrea...»
«Piuttosto gli mando una mail.»
«Mail o telefono non importa, basta che ti fai dire i compiti, d’accordo?»
«D’accordo.»
«Bene, ciao pulce mia, cerca di riposare. Bacioni, ciao!»
«Ciao mamma.» E schiacciai il tasto rosso del telefono.
Purtroppo, fuori faceva freddissimo, ancora di più del giorno prima e io viaggiavo controvento, il che rese tutto cento volte più sgradevole.
Malgrado fossi ben coperto e camminassi velocemente, il vento gelido mi sferzava il viso e mi accoltellava spietatamente il naso e le mani.
Lo stress amplificò terribilmente il dolore causato dal maldipancia, di modo che, quando arrivai a casa, ero mezzo morto.
Quando ero in quello stato, il mio corpo cercava sempre di impegnare tutte le mie poche energie rimaste nel mantenimento delle sue funzioni più basilari (ad esempio la capacità di camminare), cosicché la mia mente si “scollegava” ed io deliravo peggio di un ubriaco. Dicevo di tutto e di più in quei momenti, cose che, se uno qualsiasi dei miei compagni avesse udito, sarei diventato lo zimbello a vita di tutte le scuole esistenti, perché quelli della mia età hanno l’abitudine di spettegolare su certe cose per tenersi buoni i loro “amici”, quelli con i quali possono stare solo se parlano di cose che a loro, i “boss” del gruppo, piacciono.
Dimenticai persino di mettermi le pantofole dopo essermi tolto le scarpe.
«Quanta piacevole atrocità! Davvero ottima per rasserenare l’animo e far dimenticare gli spiacevoli avvenimenti della giornata!» Esclamai mentre salii le scale, strascicando i piedi dalla stanchezza.
Frasi assurde e ridicole come quella erano comunissime nei momenti di delirio; fortunatamente, quando stavo meglio, non ricordavo mai niente di ciò che avevo detto o fatto nella convalescenza.
Una volta arrivato in camera mia aprii le persiane, accesi la luce e, quasi senza che lo volessi, le mie braccia aprirono l’anta singola dell’armadio (quella più vicina alla porta), presero la coperta blu che si trovava sul ripiano più alto e me la avvolsero attorno alla vita.
Sembrava quasi che stessi portando una gonna con uno strascico lunghissimo.
Sorrisi e mi avvicinai barcollando al computer, lo accesi e, siccome ci metteva un secolo ad avviarsi, mi spostai nel centro della stanza e mi misi a ballare, muovendo la coperta-gonna come se sapessi bene quello che stavo facendo, invece non ne avevo idea.
Ci presi persino gusto, cosicché, quando il computer fu pronto, cercai sul desktop il video che avevo chiamato “Kingdom hearts 358 2 days music - Xion's theme arranged”, schiacciai INVIO e ripresi a ballare seguendo le note allegre del piano che suonava.
Quella musica mi piaceva tanto ascoltarla quando camminavo, perché il suo ritmo era identico a quello dei miei passi.
Questa era una versione allegra dello “Xion’s theme”, quest’ultimo era stato composto da Yoko Shimomura per la colonna sonora del gioco “Kingdom hearts 358/2 days”, un gioco molto bello che avevo sul computer e al quale non giocavo da parecchio tempo.
Avevo impostato il programma per riprodurre musica e video che avevo sul computer in modo che riproducesse il file selezionato all’infinito, in modo da non dover andare là ogni due minuti a fare di nuovo PLAY.
Danzai a lungo.
Il maldipancia mi aveva fatto passare sia la fame sia la sete e solo quando inciampai nella coperta e caddi con un tonfo sordo sul pavimento, mi accorsi di quanto ero stanco.
Dopo aver fatto un po’ di respiri profondi con gli occhi puntati sul pavimento di legno chiaro, alzai lo sguardo e rimasi immobile per un momento: qualcosa non andava. Infatti, vidi che la stanza, nonostante avessi lo sguardo fisso sulla scrivania, girava lentamente verso sinistra.
«Che abbia... la febbre? In questo caso, meglio che vada a dormire.» Dissi sottovoce.
Mi alzai a fatica, reggendomi sul bordo del letto e, quando mi fui rimesso in piedi, il mio sguardo cadde sul secondo ripiano (partendo da terra) dell’armadio bianco, in particolare sulle due righe da disegno che sormontavano la pila degli album da disegno.
Le presi in mano e, come se fossero due spade, cercai di imitare alcune delle mosse che avevo usato nel sogno dell’ultima notte, sicuro che non ci sarei mai riuscito e mi sarebbero cadute dalle mani al primo tentativo, invece ci riuscii alla perfezione.
«E da quando so fare questo?!» Esclamai osservando le due righe, alla ricerca di un qualcosa, un trucco, che spiegasse quella mia nuova destrezza.
Notai che i lati di una delle due righe erano completamente rovinati, pieni di ammaccature. Poi, all’improvviso, ricordai. Ricordai di quel giovedì (alla terza ora di ogni giovedì c’era disegno tecnico, e quindi bisognava portare l’album da disegno e la riga) che Andrea era venuto a casa mia e avevamo creato il “tritura mani”, un gioco dove io e lui ci mettevamo ai lati opposti della mia camera, io contavo fino a tre e poi ci lanciavamo l’uno verso l’altro cercando di colpirci, chi colpiva per primo l’avversario guadagnava un punto, dopodiché entrambi tornavamo alle nostre posizioni originali e si ricominciava. Chi arrivava per primo a dieci aveva vinto e non valeva come punto colpire le mani e gli avambracci, perché altrimenti io, anche senza impegnarmi, lo avrei sempre stracciato: in qualche modo riuscivo sempre a prendergli in pieno le mani; da questo il gioco prese il suo nome.
Quel giorno avevo talmente distrutto quella riga che dovetti comprarne un’altra, però fu uno dei giorni più divertenti della mia vita.
Sorrisi a quei ricordi e rimisi a posto le due righe, dopodiché andai al computer e feci partire la canzone “Gravity of Love” degli Enigma, un gruppo che avevo conosciuto per caso circa una settimana prima. Per il momento, di loro conoscevo solo quella canzone, perché prendevo sempre molto tempo per giudicare una canzone e poi, se mi era davvero piaciuta, ne cercavo altre dello stesso gruppo.
Su “Gravity of Love” ero incerto, perché se la ascoltavo sul treno non mi piaceva, invece, se la ascoltavo quando stavo male o prima di andare a dormire, una volta che schiacciavo PLAY, tutte le altre canzoni mi sembravano mediocri al confronto.
Mi tolsi la coperta, mi distesi sul letto, mi misi addosso la coperta blu, incrociai le mani sul torace e chiusi gli occhi.
Le parole della canzone presero a poco a poco forma nelle mia mente ed entrai in un dormiveglia dolcissimo, accompagnato dalla lenta melodia di “Gravity of Love”.
Ore dopo, quando mi svegliai, il maldipancia era ormai passato, ma mi sentivo come nella mia testa ci fossero cinque dure pietre che, a ogni mio piccolo movimento, sbattevano contro le ossa del mio cranio, facendomi un male terribile. Come se ciò non bastasse, avevo un caldo terribile, ma le mie mani e i miei piedi erano gelati e io non sudavo. Tutti i chiari sintomi della febbre.
Con un enorme sforzo di volontà, feci i compiti che avevo scritto sul diario per il giorno dopo.
Alla fine mi sentii il doppio peggio di prima.
«Decreto che... domani non andrò a scuola.» Dissi solennemente, strascicando le parole.
Decisi che non avrei mandato la mail ad Andrea, quella aveva l’aria d’essere una lunga assenza.
Il resto della giornata passò in fretta, come se quel giorno fosse già finito.
Prima di andare a dormire, accidentalmente andai a sbattere contro uno stipite delle porta della mia camera. Da quel momento, quel punto cominciò a prudermi. Inoltre, mi accorsi che coincideva con il punto dove ero stato colpito nel sogno e, quando mi tolsi i vestiti, vidi che la ferita c’era, ma era stata ridotta a un graffietto che a stento si vedeva.
Ero in ansia per la notte, un po’ per paura, un po’ per la gioia di tornarci, perché in fondo, mi divertivo.
Dopo essermi addormentato, il sogno non tardò ad arrivare.
Il posto era sempre lo stesso, ma ora, in qualche modo, ne conoscevo il nome: Le Tenebre dell’Infinito.
«Cosa mi farai affrontare stavolta?» Dissi al vuoto che mi circondava.
«Bene, vedo che hai capito.» La Voce era tornata.
«Chi sei?»
«Eh eh eh... anche se mi conosci da poco, dovresti comunque ricordarti bene di me, anche senza vedermi.»
«Qualcuno che conosco da poco? Poco quanto? E come pretendi che mi ricordi di qualcuno solo dalla voce?»
«Qualcuno? Ho mai parlato di una persona?»
«Cosa intendi dire?»
«Per il momento, direi che la definizione più adatta per ciò che sono è: qualcosa.»
«Non ho capito niente, ma non credo che tu abbia voglia di spiegarmelo un’altra volta, non è vero? Perciò mettimi davanti al mio avversario e basta. Non so dove questo mi porterà, ma vorrei scoprirlo.» Dissi deciso e le due solite spade apparvero nelle mie mani.
Fu la stessa cosa di prima, solo che stavolta non c’era un buco di terra, ma una pozza d’acqua.
Il meccanismo fu lo stesso: una sfera liquida s’innalzò e prese la mia forma, ma non si creò una spada. Quando la pozza d’acqua evaporò nell’oscurità, la copia mormorò qualcosa e un fulmine mi centrò in pieno, lasciandomi mezzo stordito e paralizzato, la copia ne approfittò per crearsi una spada, aggirarmi rapidamente e attaccarmi sulla schiena. Si muoveva sul pavimento di tenebre come avrebbe fatto un’esperta pattinatrice di ghiaccio sulla sua pista preferita. Ripeté il sistema colpo-aggira-colpo per un po’, per concludere scagliandomi lontano.
Mi rialzai e capii che quella, al contrario della mia copia di terra, era velocissima, dunque doveva essere molto scarsa nel combattimento ravvicinato.
Riprovò lo stesso sistema di prima, sembrava perfetto e inschivabile allora decisi di provare un paio di mosse a caso. Provare a gettarsi verso la copia mentre mi aggirava non funzionava: era troppo rapida. Girarsi improvvisamente e colpirla prima che mi colpisse lei da dietro dopo avermi aggirato non funzionava, saltava sopra la mia testa e mi colpiva da dietro. Allora dovevo trovare un modo di proteggermi su tutti i lati allo stesso momento.
Idea trovata.
Finsi di volerla attaccare dopo che lei mi avesse aggirato e, com’era già successo, essa saltò sopra la mia testa. Allora io mi misi a girare su me stesso in modo che lei atterrò e fosse tranciata di netto da quel turbine di lame. Un paio di colpi, cadde ed evaporò.
«Bene, bene. Continua, più ne sconfiggerai e più io diventerò reale, forte e simile a te.» Disse la Voce.
«Non so cosa questo voglia dire, ma sono pronto a combattere ancora. C’è solo una cosa che vorrei chiederti.»
«Basta che non riguardi la mia identità.»
«Quanto durerà questa serie di combattimenti?»
«Non lo so, ma spero il più a lungo possibile.»
«Perché?»
Il rumore di vetri che si rompono ritornò, il pavimento si ruppe e mi ritrovai nel mio letto, sopra le coperte, fradicio di sudore.
Mi guardai intorno freneticamente, per accertarmi che il sogno fosse veramente finito e non ci fosse nessun altro nella stanza, dopodiché sciolsi ogni legame con il mio corpo per concentrarmi nel ristabilire la mia regolare respirazione.
«Ma cosa... sono solo dei sogni, ma allora perché ho così tanta paura?!» Urlai, senza badare al fatto che mia mamma mi avrebbe certamente sentito.
Infatti, quasi subito, udii un rumore di coperte spostate proveniente dalla camera dei miei genitori, dei passi veloci risuonare sul pavimento del pianerottolo, il rumore della porta della mia camera che si apriva e vidi la lampada sul soffitto accendersi.
«Cos’è successo?!» Chiese mia mamma, preoccupata.
«Niente, la febbre mi ha fatto fare un incubo tremendo.»
Lei mi venne accanto e mi mise la mano sulla fronte.
«Scotti e sei bianco come un morto, credo sia meglio che tu oggi non vada a scuola.»
«Lo penso anch’io, scusa per averti svegliato.»
«Ma cosa scusa! Se stai male è naturale che io molli tutto per venire a vedere come stai, pulcettina mia!» Esclamò lei prendendomi la mano destra per accarezzarla e sbaciucchiarla.
Sorrisi e dissi dolcemente: «Grazie mamma.»
Dopodiché, mi rimisi sotto le coperte e cercai di riaddormentarmi, senza mai riuscirci, per paura che il buio delle mie palpebre si trasformasse di nuovo nel buio di quel posto.
Per due settimane andò avanti così, a forza di copie di terra e d’acqua. Riuscire era sempre più complicato e difficile.
Anche quando (dopo tre giorni) la febbre mi passò, ormai per me non esisteva nient’altro, ero diventato una specie di fantasma: una persona che c’è senza esserci. Non parlavo più con nessuno, nemmeno con Andrea e Aristeo, Dario e compagnia non mi davano più fastidio, i prof non mi chiamavano mai, ma a me non importava.
La domenica passò e l’ultimo combattimento fu contro una dozzina di copie d’acqua e di terra, avevo veramente rischiato di non farcela, ma ce l’avevo fatta. Dopo il martedì, la Voce non si era più fatta sentire.
Era di nuovo lunedì e, passato il giorno, arrivò il tempo di sognare.
Ormai era chiaramente percepibile, c’era stata fin dall’inizio, ma era così minuscola che non si poteva avvertire. C’era una presenza in quel luogo, era ciò che mi aveva aiutato fino a quel momento curandomi le ferite ogni mattina e mi portava e mi faceva uscire dalle Tenebre dell’Infinito ogni notte.
Molto probabilmente quella presenza era la Voce.
Ogni volta che entravo, la sentivo sempre più potente, ma quando i nemici apparivano si stancava improvvisamente, forse perché era quella presenza a crearli.
Ora l’aria fremeva a causa dell’immenso potere che si trovava in quel posto.
A un certo punto, ogni vibrazione cessò: un nuovo avversario era appena stato creato.
Davanti a me, l’oscurità di quel posto si concentrò in un punto.
Da quel punto si formò un demone. Aveva corna, ali e, su quella che generalmente dovrebbe essere la faccia, si stagliava un sorriso enorme quanto crudele.
In confronto a lui, le Tenebre dell’Infinito sembravano candide come la neve.
Non aveva niente che potesse far pensare che fosse una mia copia, eppure aveva anche lui due spade, entrambe nere come la pece.
Con un fruscio d’aria, sparì per riapparire dietro di me, mi girai, lui scomparve nuovamente per riapparire dietro di me. Non avevo nessuna via d’uscita. Mi trafisse nel mezzo della schiena con una delle spade. Questa volta provai dolore e vomitai sangue.
Il gusto del sangue era veramente orrendo, sembrava come leccare un coltello.
Poi il demone estrasse la spada, mi fece voltare verso di lui e il sogno finì.
Ora lo vedevo chiaramente, davanti a me, grazie alla poca luce che attraversava la fessura tra le persiane delle due finestre.
Il demone era davanti a me con quel suo sorriso terrificante.
Mi guardai il petto: una delle sue spade nere era conficcata nel mio cuore e il sangue gocciolava sul pavimento di legno.
All’inizio sentii delle orribili contrazioni in quella zona, ma la mia sofferenza durò ben poco e il dolore cominciò a sfumare velocemente, fino a quando non sentii più niente.
La vita mi abbandonava.
È come quando mi addormentavo: non mi accorgevo che stava succedendo.
Stranamente, non vidi la mia vita scorrere davanti ai miei occhi nei pochi secondi che mi rimanevano, come avevo sentito dire da una mia maestra delle elementari. Forse questo significava che non era finita per me, e che a breve avrei visto cosa c’era oltre.
Forse… c’è speranza. Questo pensiero mi fece addirittura sorridere, dopodiché chiusi gli occhi e mi addormentai serenamente.
Ero morto.